venerdì 31 agosto 2007

Honduras, mercato e repressione. E chi protesta muore

Avete voluto manifestare e c'è scappato il morto: peggio per voi. È questo il senso del messaggio inviato da Armando Urtecho López, avvocato del Cohep, la Confindustria honduregna, agli attivisti del Coordinamento nazionale di resistenza popolare (Cnrp). Il 27 agosto, a partire dalle 4 e mezzo del mattino, in migliaia hanno occupato le principali strade del Paese e uno di loro, Wilfredo Lara, 23 anni, maestro, è stato ucciso da un colpo d'arma da fuoco, sparato a bruciapelo da un albergatore.
Il suo sindacato aveva aderito alla piattaforma lanciata dal Coordinamento nazionale di resistenza popolare (Cnrp) e Wilfredo stava partecipando al blocco (toma de carretera) nel municipio di Florida, a 350 km dalla capitale Tegucigalpa, lungo la strada che porta in Guatemala. «La colpa [dell'omicidio] -ha spiegato Urtecho López- è di chi fa manifestazioni insensate come quelle di questi giorni». E, rivolto alla Cnrp, ha aggiunto: «Lasciate che il popolo scelga se stare con i rivoltosi o con la tranquillità e lo sviluppo». Un concetto ripreso il giorno successivo anche dal ministro della Difesa, Arístides Mejia, che in un programma televisivo ha accusato i dirigenti del Coordinamento di essere i responsabili della morte del maestro.
L'atteggiamento che ha scatenato le reazioni della società civile: quelli dell'Alianza Cívica por la Democracia (Acd) hanno denunciato che «l'ordine di disarmo e la promessa di protezione nei confronti dei manifestanti e dei viaggiatori non è stato eseguito», accusando la polizia che, in questa occasione, «ha brillato per la sua assenza». Marvin Ponce, deputato dell'opposizione di sinistra in Honduras, il Partido de Unificacion Democratica (Ud) che però non arriva al 5 per cento, schiacciato tra il Partido Nacional e il Partido Liberal, che di diverso hanno solo il nome, ha invitato Urtecho López al silenzio: «La sua condizione di difensore degli oligarchi non le dà l'autorità morale di mettere in discussione i movimenti popolari, a meno che anche questo non sia pagato dagli onorari che riceve dagli imprenditori che lei difende in modo tenace».
Il Coordinamento nazionale di resistenza popolare raggruppa una trentina di organizzazioni contadine, indigene, sindacali e per la difesa dei diritti umani in tutto l'Honduras. Una toma de carretera ben organizzata, come quella di lunedì scorso, è in grado di paralizzare il piccolo Paese centro americano: per farlo basta occupare tre o quattro arterie. Secondo la stampa honduregna il 27 agosto c'erano -contemporaneamente- fino a una sedici blocchi.
La piattaforma che convocava la mobilitazione riassumeva tutte le richieste che la società civile ha avanzato negli ultimi anni (e le lotte portate avanti, che più volte abbiamo descritto su Liberazione). Tra le altre, la cancellazione della Ley de Agua Potable y Saneamiento del 2003, che ha permesso l'ingresso del capitale privato nella gestione degli acquedotti (la romana Acea insieme a un consorzio d'imprese è a San Pedro Sula, la seconda città del Paese); l'approvazione di una nuova Ley de Mineria, che metta fuorilegge le miniere a cielo aperto, che usano il cianuro nel processo di estrazione del minerale e poi lo disperdono nell'acqua e nell'aria (oggi quasi la metà dell'Honduras è sotto concessione mineraria e il capitale italiano è presente con un paio di permessi concessi alla ditta Colacem di Gubbio attraverso la controllata Eurocantera); la riforma agraria; il rispetto dei diritti dei popoli indigeni e negri; l'educazione pubblica gratuita; la riduzione del costo di invio delle rimesse dei migranti, una partita importante nella bilancia commerciale del Paese.
Secondo i portavoce del Cnrp, il presidente Mel Zelaya, al governo del dicembre del 2006, non ha fatto niente, in 19 mesi, per risolvere i gravi problemi del Paese: «Il Governo, con le sue posizioni demagogiche, ha mantenuto in modo arbitrario il modello neoliberista che ci sommerge nella miseria e nelle disintegrazione nazionale, e non ha mai mancato di utilizzare la repressione come risposta alla proteste popolari». Fedele alla linea, Zelaya ha rifiutato di incontrare i portavoce dei manifestanti. E mentre il ministro della Sicurezza gli accusava di voler creare in Honduras «una situazione boliviana», con un dirigente popolare come Evo Morales al potere, in un'altra esternazione l'avvocato degli industriali Urtecho López ha accusato il movimento di essere finanziati dal presidente venezuelano Hugo Chavez. La risposta è stata affidata a Daniel López, anch'egli dell'Alianza Civica por la Democracia: «È vero -ha detto ironicamente- ci sono dei contadini che fanno Chávez di cognome e che hanno pagato di tasca propria i passaggi in autobus per andare a manifestare».

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Liberazione il 31 agosto 2007

lunedì 27 agosto 2007

In Costa Rica un referendum popolare per dire "No" al Trattato di libero commercio (1)


Il 7 ottobre prossimo la popolazione del Costa Rica sarà chiamata a decidere, con un referendum, se ratificare o meno dell'accordo di libero scambio tra il proprio Paese e gli Stati Uniti d'America. Firmato nel 2005, il Cafta, Central America Free Trade Agreement, è già in vigore in tutti i Paesi centroamericani a eccezione del Costa Rica. Con il sostegno dell'ambasciata degli Stati Uniti d'America, il governo del presidente Arias Sanchez e il Tribunale supremo elettorale (Tse) portano avanti una campagna a favore del "Sì": tra le ultime decisioni del Tse, ad esempio, c'è quella di impedire alle università di divulgare informazioni sugli studi che evidenziano l'impatto economico e sociale negativo del Cafta. Intanto il movimento sindacale, contadino e studentesco si è fatto promotore di un'ampia piattaforma di opposizione al Trattato di libero commercio, il Movimiento Patriótico "NO AL TLC", sviluppando a livello locale una struttura organizzativa di comitati patriottici formati da migliaia di volontari.
Il fronte del "Sì" sventola come una bandiera il "mito delle preferenze": secondo il presidente, se non ratifica il Cafta il Costa Rica non potrà più commerciare con gli Usa. Ma l'unico settore che, con il Trattato di libero commercio, verrebbe favorito da una riduzione della tassazione è il tessile (meno 20 per cento), un vantaggio che si annulla in virtù delle regole di origine imposta dal Cafta (l'uso, cioè, di input provenienti dagli Usa o dagli altri Paese del Centro America, ridurrebbe in modo sostanziale questo vantaggio).
L'unica certezza è che, anche senza il Cafta, il Costa Rica è il maggiore esportatore dell'America Centrale. L'export è cresciuto del 17 per cento tra il 2005 e il 2006 (da 7 a 8,2 miliardi di dollari).
Il commercio con gli Stati Uniti, 3,4 miliardi di dollari nel 2006, rappresenta una fetta importante dell'export "tico" (il nomigonolo affibbiato ai costaricensi mentre i nicaraguensi sono "Nica" e gli honduregni "catrachos"), anche se negli ultimi sei anni l'Asia ha reigstrato una crescita del 370%, passando da 304,8 a 1.435,3 milioni di dollari).
L'89 per cento dei prodotti esportati dal Costa Rica verso gli Stati Uniti d'America già paga tariffe inferiori al 10% (ananas: 0,5 centesimi; succo: 7,8 centesimi per litro), e questo 89 per cento rappresenta il 94,4 per cento in termini di valore.
Nessun dato evidenzia, invece, le possibilità di sviluppo nell'ambito del Trattato di libero commercio "vendute" come certe da Arias Sanchez al Paese.
Nell'opposizione (l'ex candidato alla presidenza Otton Solis ha detto: "Dov'è scritto per questo ci aiuterà a svilupparci?"), ma anche nella sua maggioranza, si levano molte voci contrarie al Cafta. L'esempio delle altre repubbliche centroamericane a un anno dall'entrata in vigore del Trattato evidenzia bilance commerciali verso gli Usa in profondo rosso.
Il Messico, poi, a dodici anni dal Nafta (North America Free Trade Agreement) esporta per lo più manodopera a basso costo (500 mila migranti all'anno) e fonda la propria economia sulle rimesse che questi inviano ai proprio familiari (oltre 20 milioni di dollari l'anno). Il Costa Rica non ci sta.

domenica 26 agosto 2007

In Guerrero nessuno vuole la diga "La Parota"

Il 12 agosto oltre 3 mila contadini indigeni del municipio di Cacahuatepec, nello Stato messicano del Guerrero, ha rinnovato il proprio "No" al progetto di costruzione della centrale idroelettrica "La Parota". Il progetto della diga è promosso dalla Comisión Federal de Electricidad (Cfe).
Secondo il Consejo de Ejidos y Comunidades Opositoras a La Parota (Cecop), l'invaso, creando un lago artificiale di oltre 14 mila ettari, andrebbe a sommergere 24 comunità indigene. Contro il progetto si è schierato anche l'Asociación Civil de Ingenieros Agrónomos Democráticos de Guerrero.
Nell'agosto del 2005, nel corso di una assemblea agraria, le comunità interessate dal progetto avevano votato contro la costruzione de La Parota, ma il 27 marzo di quest'anno il Tribunal Unitario Agrario ha annullato la votazione. La tensione è tornata a salire in Guerrero negli ultimi mesi. Negli anni, le lotte contro la realizzazione della diga hanno già lasciato sul campo quattro morti.
A maggio, in occasione di un'assemblea comunitaria per discutere la realizzazione della diga, si è recata nella regione anche una missione internazionale di osservazione dei diritti umani, che ha riscontrato l'"irregolarità" della convocazione dell'assemblea, la "strategia repressiva" del governatore dello Stato del Guerrero, Zeferino Torreblanca Galindo, colpevole di criminalizzare l'opposizione al megaprogetto -i membri del Cecop- nel tentativo di escluderla dalla discussione e dalla votazione.
Né il Governo statale né quello nazionale, però, sembrano intenzionati a riconoscere la validità del voto del 12 agosto. Considerano l'assemblea "consultiva". Così il Movimiento Mexicano de Afectados por las Presas y en Defensa de los Ríos (Mapder) ha promosso un manifesto internazionale (in spagnolo, in inglese) per esigere "il rispetto della volontà dei popoli e condannare l'imposizione del progetto idroelettrico La Parota".
Per adesioni guscastro@laneta.apc.org (Gustavo Castro)

I diritti affondano nella diga La Parota
(Il Manifesto, 10 dicembre 2004)
Eccomi a presentare questo blog, dopo i primi due articoli di prova postati ieri notte (sono un po' vecchi, pubblicati da Liberazione a metà luglio).
Già nel nome, icoloridelmais.blogspot.com, ho scelto di evidenziare la continuità di questo strumento con il mio libro, "I colori del mais. Società, economia e risorse in Centro America", pubblicato a giugno dalla casa editrice EMI.
Il punto di partenza è lo stesso: la volontà d'informare, intrecciando le storie di comunità, popoli indigeni e organizzazioni sociali con dinamiche economiche, politiche e sociali, una realtà -quella centroamericana- piuttosto assente sui media mainstream. E di farlo, prestando ancora più attenzione a ciò che accade, oggi che anche l'Unione europea si appresta a negoziare un accordo di libero commercio con la regione. Non è un particolare di poco conto: come scrive Roberto Sensi del Tradewatch nell'introduzione a "I colori del mais", per le imprese europee del settore dei servizi il Centro America rappresenta un approdo importante (molte, del resto, sono già arrivate, e adesso, per ingrandirsi, aspettano solo nuove "condizioni" più favorevoli agli investimenti).
La scommessa, per me, è quella di farne uno strumento utile (intanto) e continuativo (con l'impegno a postare almeno 2 o 3 notizie ogni settimana).
Grazie per l'attenzione e... usatemi. Luca

L'Italia investe sul Guatemala

La Camera dei deputati ha ratificato un Accordo sulla promozione e protezione degli investimenti tra il nostro Paese e il Guatemala, firmato a Città del Guatemala nel settembre 2003, con i voti contrari (53) di Rifondazione Comunista, Pdci e Verdi. L'onorevole Ramon Mantovani ha spiegato che nell'accordo "non c'è alcun [accenno al] rispetto dei trattati internazionali in materia di organizzazione del lavoro, non c'è alcuna clausola ambientale e non c'è alcuna clausola che attenga alla questione della corruzione. [...] non possiamo più accettare che si stipulino accordi di questo tipo". Anche se si parla, nel testo approvato, di "reciproca protezione degli investimenti", secondo il deputato di Rc questo "è un eufemismo", perché non esistono imprenditori e finanziarie guatemalteche che investono in Italia. Si tratta, cioè, di un Accordo ad hoc per la protezione di eventuali investimenti italiani, concentrati nei settori dell'agricoltura, dei servizi e dell'industria farmaceutica. Adesso il voto al Senato.
Il testo dell'accordo sul sito della Camera dei Deputati.

L'Unione Europea all'assalto dell'America Centrale

Pronti, via: sono iniziati a Bruxelles, in sordina, i negoziati per l'Accordo di associazione (Ada) tra l'Unione Europea e i Paesi centro americani.
I rappresentanti di Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua e Panama sono pronti a sedersi di fronte ai negoziatori della Commissione europea e, da pari a pari, firmare l'apertura delle proprie frontiere commerciali e finanziarie a prodotti, imprese e, soprattutto, capitali provenienti dall'Ue.
Per Bruxelles è la “solita” rincorsa agli Stati Uniti d'America. Dieci anni fa l'Europa avviò i negoziati per un accordo di libero scambio con il Messico (“Accordo globale” venne definito in quell'occasione) per ovviare gli effetti negativi -in termini di minori esportazioni- del Nafta (North America Free Trade Agreement, l'accordo di libero scambio tra Canada, Messico e Usa, in vigore dal 1 gennaio 1994).
Oggi l'Ada nasce come risposta europea al Cafta (Central America Free Trade Agreement), ratificato nell'ultimo anno e mezzo da tutti i Paesi della regione escluso il Costa Rica, dove a inizio ottobre si svolgerà un referendum, e sarà la popolazione locale a decidere il “Sì” o il “No” al Trattato.
Peter Mandelson, il commissario europeo al commercio, l'ha detto in modo esplicito: il modello dell'Accordo di associazione è quello del Cafta.
Non ama i giri di parole l'uomo che si trova a fare i conti con la crisi, ormai irreversibile, dei negoziati multilaterali in sede Wto (l'Organizzazione mondiale del commercio), e ha scelto di rispondere avviando negoziati bi-laterali a tutto tondo, dall'America Centrale alla Comunità andina di nazioni (Can) all'Asean (l'associazione delle nazioni del Sud-est asiatico).
I primi effetti del Cafta, però, sono sulla bocca di tutti: per tutto il Centro America il 2006 passerà alla storia come l'anno peggiore negli ultimi dieci per la bilancia commerciale nei confronti degli Stati Uniti d'America.
In El Salvador a un anno dal Cafta il deficit commerciale è cresciuto del 24%, provocando la perdita di oltre 93 mila posti di lavoro solo nel settore agricolo. Nell'ultimo anno prima dell'entrata in vigore dell'accordo di libero commercio con gli Usa, El Salvador aveva un surplus commerciale di 135 milioni di dollari con gli Stati Uniti, che nel 2006 è diventato un deficit di 300 milioni di dollari (è cresciuto l'import mentre l'export ha registrato un meno 10 per cento, da 2 a 1,8 miliardi di dollari).
Il Guatemala, per il quale gli Stati Uniti sono il principale socio commerciale (a cui vende il 34 per cento del suo export e compra il 41 per cento dell'import), in soli nove mesi è passato da una bilancia commerciale positiva a un deficit di 415 milioni di dollari.
Stesso discorso vale per l'Honduras, passato da un surplus commerciale di (quasi) 500 milioni di dollari nel 2005 a uno di 25 nel 2006.
Il paradosso vero, però, è che l'unico Paese centroamericano ad aver aumentato nell'ultimo anno la propria quota di esportazioni verso gli Stati Uniti d'America è il Costa Rica, che il Cafta non lo ha ancora ratificato.
Ma l'Unione Europea non è interessata più di tanto al mercato del Centro America -l'interscambio commerciale con la regione è una briciola della bilancia commerciale Ue- quanto, piuttosto, a conquistare il settore dei servizi. La svendita di comparti strategici per le economie nazionali come la generazione dell'energia idroelettrica (tutto il Centro America è ricco di corsi d'acqua), la costruzione e gestione di autostrade, la gestione del servizio idrico nelle città più importanti e già iniziata, e le aziende dell'Unione Europea -dalle spagnole Endesa e Union Fenosa alle italiane Astaldi, Colacem ed Enel- non stanno certo a guardare, ma l'Accordo di associazione darebbe senz'altro “quella spinta in più”.
Felipe Calderòn, presidente messicano in carica dal dicembre 2006, ha ridato vita all'idea di un Plan Puebla Panama, un piano di infrastrutture -stradali, energetiche, ricettive- finanziato dalla Banca interamericana di sviluppo per creare un cerniera, un ponte, tra il Sud del Messico e la Colombia.
E alcune aziende italiane, come avvoltoi, puntano a spartirsi gli appalti: Astaldi sarebbe in pole position per realizzare un (contestatissimo) progetto idroelettrico in El Salvador, El Chaparral, il cui costo stimato è di 141 milioni di dollari -pari alla metà del deficit commerciale del Paese con gli Usa-. E in Honduras la stessa azienda, attraverso la filiale Astaldi Columbus, ha firmato con l'Insituto hondureño de Turismoà un impatto ambientale devastante nella Bahia de Tela: 2 mila appartamenti, 6 multi-residence per un totale di 168 ville; e ancora: centri commerciali, parchi tematici e di intrattenimento. Per finire, un campo da golf. Il tutto su oltre 300 ettari di laguna, che verranno riempiti con sabbia prelevata dal mare.
La zona è abitata dai garifuna, una popolazione afrodiscendente tenacemente in lotta (una lotta che già conta molti caduti) per difendere la proprietà delle terre che occupano da oltre duecento anni. A nulla sembra valere la Costituzione, che all'art. 346 riconosce che “è un dovere dello Stato dettare norme a protezione dei diritti e degli interessi delle comunità indigene esistenti nel Paese, e in special modo delle terre e dei boschi dove queste risiedano”, né che l'Honduras abbia ratificato -nel giugno del 1994- l'Accordo n. 169 dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sui diritti dei popoli indigeni e tribali in Paesi indipendenti. Il 70 per cento del territorio dei garifuna è ormai in mano a privati.
Ed è lo stesso “paradiso terrestre” dove il prossimo 20 settembre tornerà l'Isola dei famosi: per il secondo anno consecutivo la costa Atlantica dell'Honduras sarà in vetrina, in prima serata, davanti a milioni di spettatori. Un palcoscenico invidiabile per una zona in cui, tra qualche anno, i nostri connazionali potranno volare e far vacanza come a Tropea, in un villaggio turistico rigorosamente italian.