mercoledì 30 luglio 2008

In Messico non c'è spazio per il conflitto sociale. Intervista con Pablo Romo di Serapaz

“Il Messico ha paura di dare una brutta immagine di sé nel mondo, e di perdere così gli investimenti esteri. Molti dei conflitti sociali in corso nel Paese riguardano megaprogetti ritenuti 'fondamentali per lo sviluppo', e il governo sta dalla parte dei capitalisti messicani e stranieri. Questo fa sì che l'esistenza stessa dei conflitti venga negata dalla istituzioni e resa invisibile dai mezzi di comunicazione. Il controllo dei mass media impedisce una reale diffusione di ciò che accade nel Paese”.
Pablo Romo lavora a Città del Messico per Serapaz, Servicios y Asesoria para la Paz. Alla fine degli anni Novanta è stato direttore del Centro diritti umani “Fray Bartolomé de Las Casa di San Cristobal de Las Casas, in Chiapas. Ha appena presentato un saggio sulla “Criminalizzazione delle protesta sociale in Messico” e lo abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua casa, per parlarne.
Negli ultimi anni, di fronte all'emergere di nuovi conflitti sociali, qual'è la risposta tipica del governo messicano?
È un processo in tre tappe. La prima è quella di rendere invisibili, di negare i conflitti. Ciò porta i movimenti a ricercare nuove strategie di confronto, a cui il governo risponde quasi sempre con tentativi di cooptazione, di capire quanto “costa” il leader. Se il conflitto permane, si arriva al terzo momento, che è quello della repressione. Una repressione che si presenta in modo diverso: può essere selettiva o di massa. Oggi c'è un controllo molto stretto del territorio, una presenza militare che è incrementato moltissimo da quando è Presidente Calderón (dal dicembre 2006, ndr).
La prima fase della criminalizzazione della protesta sociale passa per la negazione dell'interlocuzione. In questo processo -che monitorate nell'ambito dell'Observatorio sobre la conflictividad social en México- qual'è il ruolo dei mezzi di comunicazione?
Ritengo importante distinguere almeno tra due diversi tipi di mezzi di comunicazione di massa. Da un lato c'è la televisione, che in Messico è un duopolio che criminalizza qualsiasi espressione di protesta. Dalle manifestazioni del Prd, il partito di opposizione, alle realtà molto più complesse fino ai gruppi armati. Assistiamo ad un controllo totale e a un'assoluta censura. Non esiste alcuno spazio per le critiche dei movimenti sociali allo status quo. E non è solo rendere invisibili: la tv denigra, attacca, calunnia i movimenti, insomma crea una stigmate di criminali intorno ai movimenti.
Per quanto riguarda invece quotidiani e periodici, c'è né almeno uno o due che assumono un punto di vista più critico, ma raggiungono poche persone.
Il mondo delle radio invece è molto diverso. La maggioranza sono vicine alla televisione, e le poche voci critiche sono state zittite. Anche la comunicazione sui temi ambientali, di solito, è fatta per creare timore nei confronti delle organizzazioni sociali. Però, c'è il fenomeno nuovo delle radio comunitarie, della radio pirata, dei blog, mezzi di comunicazione “più orizzontali” che stanno giocando un ruolo “insurgente” nel panorama attuale.
Quand'è che la strategia del governo ha successo nel frenare l'opposizione sociale?
Succede quando i movimenti non sono pronti a un tipo di confronto che sfocia nella repressione, e l'azione governativa riesce a generare paura. Ad esempio, l'azione del Fronte per la difesa dell'acqua di Cuautla, nello Stato di Morelos, si è fermata dopo l'omicidio di due leader..
La detenzione di Ignacio “Nacho” Del Valle, leader di San Salvador Atenco, è invece un esempio molto chiaro di come il governo voglia diffondere messaggi: “Se vi mettete contro di noi, passarete 60 anni in carcere, come 'Nacho'”. Tutto affinché la gente capisca che non ha senso protestare.
In questo modo, cercano anche di dividere le organizzazioni, tra radicali, disposti a tutto, e moderati. Ad Atenco, però, non ci sono riusciti.
Un passo ulteriore, nella strategia “ufficiale”, è portare la protesta in tribunale.
Questo risponde a un'idea molto semplice: la gente semplice non può difendersi e pagare buoni avvocati nel corso di un processo. In più, in Messico non si può confidare sulla lealtà dei procuratori né dell'apparato giudiziale.
Questa è una delle ultime strategia per inibire la forza di un movimento.
Poi c'è spazio solo per la repressione armata. Quando arriva il momento dell'esercito?
Oggi, purtroppo, l'intervento dell'esercito va letto in un contesto più ampio, che è quello della guerra globale al terrorismo. Il Messico deve difendere il proprio spazio territoriale perché non entrino terroristi. Il Paese dev'essere “pulito”. La decisione di intervenire militarmente, cioè, non è del governo messicano, dipende dagli ordini “dell'impero”. l'esercito messicano è dispiegato in tutto il territorio nazionale, non solo nelle zona di conflitto armato come Chiapas e Guerrero. È presente da Tijuana a Cancún, a Cozumel. L'esercito controlla le strade, e non limita più il proprio compito alla difesa della patria, né sta lottando contro il narcotraffico.
Sta realizzando un'opera di controllo sociale, e lo sta facendo -ad esempio in Chiapas- nel tentativo di distruggere l'articolazione del movimento contadino e le relazioni tra questo e l'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln).
Mostra la propria forza per smobilitare i movimenti sociali.

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